Ciao a tutti. Il mio piccolo contributo sulla Granfondo di Roma 2013. Gli occhi e le emozioni (e i pedali) sono quelli di un debuttante in questo tipo di eventi, quindi i più avvezzi non potranno che sorridere smaliziati e probabilmente si annoieranno pure. Per gli altri, invece, spero trovino qualche spunto interessante. Io mi sono divertito a scriverlo.
Domenica 13 ottobre. Apro gli occhi due ore prima della sveglia. Sono troppo eccitato. Parto da casa alle ore 7,30. La colazione è stata robusta ma non molto differente dai soliti giorni e probabilmente, lo ammetto, non proprio da atleta: tazzona di latte e
caffè, una crêpe alla nutella con tanto di zucchero a velo, un plumcake al cioccolato e un bicchiere dacqua con sciolta una pasticca di vitamina C grande come due euro. Fa un freddo becco, almeno per me che lo soffro molto e opto per un tristrato che neanche sul Mortirolo a gennaio: maglia intima termica, maglia della gara, maglia a maniche lunghe (mancavano solo le mutande di pelo e la botticella di cognac appesa al collo e sarei stato pronto per il fronte russo). Scelta apprezzata fino a 10 minuti esatti dopo la partenza, cioè fino a quando sono riuscito a superare i 7 chilometri orari e la massa ingolfata di corridori ha cominciato a sfilacciarsi sul basalto dellAppia Antica, dopodiché ho avuto laccortezza di togliere almeno lintimo. Una parola
Infatti quando rientro in gara dopo la sosta forzata in pratica quelli della Granfondo, ciclopedalata compresa, sono spariti. Su mezzi a due
ruote cè solo qualche signorotto senza numero, un tipo rasta in mountain bike e un gruppo di turisti americani con le Nikon a tracolla e le bici a noleggio. Ma dove sono tutti? Possibile che sono rimasto così indietro? In realtà basta una curva e rivedo la coda dello sciame colorato e vociante: per lo più sono maledizioni per le vibrazioni inconsulte che regala il sampietrino romano al telaio. Laccoppiata carbonio-kevlar della mia Bianchi di solito è generosa quanto a comfort, ma stavolta è messa veramente in crisi. Alla capsula del secondo molare rinuncio, ma mi chiedo se è il caso di reggere con una mano almeno il ciclocomputer per non farlo cadere, purtroppo però le due che ho sono troppo impegnate ad aggrapparsi alla curva del manubrio e tenere dritta la ruota anteriore.
Appia Nuova: ricomincia lasfalto, una delizia per il sottosella, leggero falsopiano e un unico obiettivo nella mia testa: superare il gruppone della ciclopedalata turistica, tra cui gente con lo zaino, biammortizzate da downhill e bici pieghevoli (una in particolare con la targa alzata a 70 gradi come quelle antimulta degli Honda Cbr). Loro giustamente se la prendono comoda, chiacchierano, si lanciano battute, alcuni invocano già il ristoro, io però devo onorare la specialissima e anche se la mia di Granfondo sarà una passeggiata esattamente come la loro, la mia media oraria deve essere dignitosa. Voglio infatti stare almeno con quelli del mio livello, anzi anche con qualcuno sgamato, così magari imparo qualcosa.
Mi metto ai 35 allora, fisso sulla corsia di sinistra (macchine permettendo) e ne supero parecchi; sfrutto anche la ruota di altri che come me risalgono il gruppo, finchè arriviamo alla svolta per il lago di Albano. La strada diventa leggermente più ripida, ma vado su fluido sempre con il 50. Il sole ormai scalda bene, la giornata è oltre le aspettative e ripaga della settimana umidiccia. Chiacchiero un po con un tipo che ha una ciclocross. Mi piace questo genere di bici versatile. Mi racconta che la settimana scorsa su un tracciato off road è caduto, disarcionato da una buca e si è preso un bello spavento. Ci scambiamo qualche idea su percorsi interessanti intorno a Roma poi piano piano si stacca. Vado su bene, la strada è alberata, fresca e tranquilla, solo noi a squarciare la sua quiete in queste prime ore del mattino. In realtà le borracce e soprattutto le buste vuote di sali ed energizzanti in terra ci dicono che qui, molto prima di noi, cè chi andava a tutta. Io comunque mi sento tonico e felice tra tutte queste maglie multicolori che pedalano solo per il gusto di andare.
Entriamo nella galleria prima del lago. Ricordandomi di quanto è buia di solito, a casa avevo per attimo pensato di portarmi una torcia. Ho fatto bene a lasciarla dovera: è tutta illuminata e si procede sfruttando il leggero declivio. Svoltiamo a sinistra e dopo un po cominciamo a salire sulla panoramica che regala scorci mozzafiato. Questa è la prima vera rampa del percorso. È un continuo clack, stack, stratrack degli
Shimano e dei Campagnolo che aggiungono denti ai pignoni posteriori. Chi sbuffa, chi si lamenta, ma per lo più si guarda lasfalto davanti alla ruota e si pedala concentrati, in silenzio per non sprecare fiato. A un certo punto qualcuno dice: Guardate che bella la residenza del papa che si specchia nel lago. Sembra un dipinto a
olio!. Mi volto anchio e ha proprio ragione.
Per tutta la rampa di Rocca di Papa salgo su al mio ritmo, fluido; i miei allenamenti in salita mi stanno ripagando. Guardo chi resta indietro, strizzo locchio come a incitare chi è in affanno. Alcuni invece sono immersi nello sforzo ma stoici, impassibili, i volti tirati e gli occhi contratti, hanno qualche decade in più di me e certamente tante di salite come questa alle spalle. Vanno su lenti ma inesorabili, il gesto plastico: sono istantanee straordinarie per me e mi rievocano le pagine eroiche di questo sport.
Lultimo tratto è una specie di muro che costringe qualcuno a mettere il piede a terra e spingere a mano la bici. Io resisto, mi appendo a chi ci strilla che è quasi finita, abbasso la schiena e brucio nei muscoli roventi quegli ultimi metri. È andata.
Si va che è un piacere fino al primo postoristoro. Mi fermo, poso la bici, mangio una mezza banana, un dolcetto, un panino con la marmellata e rabbocco la borraccia per la seconda busta di sali minerali. Riparto con calma gustandomi la discesa piena di castagne, attento a evitare i loro ricci spinosi (visto che già qualcuno è sul ciglio della strada a cambiare camere daria). Mentre si avvicina la statale rimango solo e mi si affianca un tipo di mezzetà dal polpaccio scolpito. Mi fa una sorta di anteprima ragionata di come evolverà il percorso. Mi ha visto solo e si è sentito di suggerirmi di accodami a qualcuno per svangare la statale verso Rocca Priora e soprattutto mi mette in guardia dalla rampa che porta al paese. Lo ringrazio e lo vedo sfilare via col suo gruppetto ai 40 allora. Eseguo come un soldatino le sue pertinenti raccomandazioni e come passa un gruppo, mi metto a ruota. Si viaggia una meraviglia, nonostante il leggero traffico che ormai ha invaso il percorso di gara. Lungo la strada si vedono i camioncini che vendono dei porcini dalle dimensioni smisurate, immagino piatti fumanti di risotti e fettuccine.
Arriva lincrocio per Rocca Priora. È ben segnalato ma la svolta è secca e la strada sale subito ripida. Sento le bestemmie di chi non è riuscito a scalare marcia ed è rimasto piantato. Ion non so comen riesco a inserire il 34 e in piedi sui pedali cerco disperato lequilibrio. Inizia la salita. Il segnale di 5 chilometri mi mette ansia. Ce la farò? Mi metto a ruota di una coppia di inglesi che salgono regolari. Uno mi chiede se ripasseremo sulla stessa strada al ritorno e gli spiego che solo nellultimo tratto il percorso si sovrappone per un po a quello dellandata. Mi metto nei panni di questi britannici venuti a godere su queste strade ancora piene di sole. La pendenza è più forte e secca della salita di Rocca di Papa che lasciava rifiatare a brevi intervalli. Qui no, si sale concentrati. Per fortuna non ci sono macchine e la strada è tutta nostra. Passa solo qualche meccanico con lo scooter o quelli del servizio medico. Mi ritrovo spesso a pedalare con uno straniero. Si chiama Goran, non ci diciamo nulla se non con lo sguardo, la nostra non è una sfida, ma diventiamo una sorta di riferimento uno per laltro per salire con un ritmo decente, che comunque non va oltre i 10 orari.
Goran a un certo punto si pianta e trovo un altro tipo con la stessa cadenza mia; mentre superiamo un signore con la handybike che va su a forza di braccia ci mettiamo a chiacchierare di gruppi muscolari, ciclismo e disabilità, le straordinarie performance di Zanardi e dellimpossibilità oggettiva di paragonare il ciclismo moderno con quello epico del dopoguerra. Lui è originario delle Dolomiti ed è abituato alle lunghe salite. Mi porta fino al paese continuando a chiacchierare. La gente si affaccia alle finestre per incitarci a superare gli ultimi metri di questa salita che ora sento tutta nelle gambe. Mi ricordo di quando io bambino incitavo i ciclisti che passavano nel paese di mia nonna. Mi fermo per riprendere fiato e ne approfitto per fare un po di stretching. Qualcuno si scatta la classica foto ricordo. Saluto il ciclista trentino e scendo al secondo postoristoro di Monte Compatri. Ho esaurito le riserve di energia e mi butto sulla frutta. Mangio anche un panino col prosciutto e bevo una coca cola.
La signora che mi riempie il bicchiere mi chiede se conosco il paese e quando gli rispondo di no pur essendo io romano ci rimane un po male. La provoco bonariamente dicendo che anche lei probabilmente non è mai stata in tanti angoli di Roma e lei mi spiega che probabilmente è vero, perché nella metropoli lei ci va tutti i giorni, ma solo a lavorare. Mentre lascolto mi viene da pensare al fatto che questa donna in fondo sta rinunciando al suo riposo del fine settimana, per stare qui in piazza a lavorare come volontaria e dare supporto a noi ciclisti. Questa gente va veramente applaudita.
Devo ripartire. Sfila Monteporzio Catone. La salita del Tuscolo mi aspetta e se non fosse che arriva dopo 60 chilometri e altre due rampe non sarebbe così dura. Ritrovo i due inglesi, poi mi accodo a un gruppetto di romagnoli con diverse presenze femminili. Nella discesa verso Roma mi accorgo di quanto sono stanco. A tratti ho freddo sotto alla maglia bagnata. Mi ritrovo da solo e lo scooter con i paramedici mi scorta per diversi chilometri. Mi da un po di conforto soprattutto negli incroci con qualche automobilista che fa fatica a rispettare il blocco imposto dal percorso di gara. La parte di Ciampino è quella più pericolosa.
Rincrociamo lAppia e passiamo lAppia Antica. Ripenso a tutte le volte che sono andato a Castelgandolfo con la mountain bike su questa meravigliosa strada secolare. Arriva lArdeatina. Non ne ho più. Mangio lultima mezza banana, ma mi fa male tutto e ho finito anche lacqua. Devo assolutamente fermarmi a sgranchirmi, ma sento il traguardo vicino e stringo i denti cercando qualcuno da affiancare. Purtroppo i pochi gruppetti che mi raggiungono vanno al doppio di me e mi rassegno a faticare in soltudine. La bellezza della campagna romana mi allevia solo in parte i dolori. Mi riprometto comunque di tornare su queste strade.
La mazzata finale sono i sampietrini dellultima parte dellAppia Antica. Mi fanno venire quasi i crampi alle mani. La sosta a un semaforo rosso mi sembra il paradiso. Un gruppo sempre romagnolo serra le fila mentre passiamo sulla Colombo e imbocchiamo il viale di arrivo. La strada ha unimpercettibile pendenza ma per me è come se fosse salita. Butto giù un dente e mi alzo sui pedali. Guardo la fotografa che mi immortala sul traguardo e mi esce un ghigno o forse una smorfia. Ho finito. Il ciclocomputer segna 110 chilometri, sono le ore 13. Ho goduto, ho sofferto, ho dato quello che potevo per passare unaltra giornata in sella come piace a me: aria aperta, sangue in circolo, senso di libertà e voglia di avventura. Ho scoperto nuove strade e assaporato le gioie e i dolori di un percorso per me impegnativo. La bici in compenso non mi ha tradito, ripagandomi delle cure che le ho dedicato.
Sono talmente stanco che dopo larrivo non vedo il pasta party e non perdo tempo a cercarlo. Mi infilo con tutta la bici al mercato rionale di via di San Teodoro e chiedo un panino con prosciutto e mozzarella. Lo divoro osservando seduto accanto a un albero la folla di ciclisti con le famiglie che va e viene dal villaggio Campagnolo. Un bambino mi viene vicino e si mette a mimare le curve con una bici da corsa, swischsss
swischsss
. swischsss